Take a pop...
Ovvero tre modi diversi di approcciare le icone della pop culture come Superman, Indiana Jones... e Massimo Ranieri!
Ok, le eccezioni stanno diventando la regola. Primo, il ritmo dei miei post sta diventando quasi settimanale. Secondo, questo post non è quello che avevo annunciato l’altra volta. Ma almeno una cosa la rispetterò, il tema principale della mia newsletter. Anche questa volta si parlerà di passato e di futuro. Insomma, una newsletter che parla di eventi e cose “fuori dal tempo”. Questa volta, come lo avrete capito, troverete qualche riflessione su tre icone pop e attraverso di esse toccherò un argomento interessante, soprattutto per chi fa il mio mestiere: cosa è un “take” e come si ragiona quando si approcciano dei capisaldi della cultura popolare.
Lo dico subito, quando arriverò a parlare di Indiana Jones, il testo conterrà una quantità enorme di spoiler sull’ultimo film. Ma proprio per questo, sebbene sia proprio questo quinto e ultimo Indy il motore che ha dato il via alle riflessioni contenute in questo post, lo metterò per ultimo. Se non avete visto il film, quindi, potrete fermarvi prima. Avrete comunque modo di godervi le prime due parti di questo post che non contengono spoiler di alcun tipo.
E allora iniziamo da…
Superman: Legacy, un film fuori dal nostro tempo?
Il testo che segue è una versione leggermente riveduta e corretta di un post pubblicato qualche giorno fa su Instagram e Facebook. Se lo avete letto, potete saltarlo a piè pari, se invece non avete avuto modo di leggerlo e vi interessa l’argomento, accomodatevi.
Come qualunque amante dei fumetti e dei comics americani in particolare, mi sto domandando da mesi quale sarà il “take”, ovvero l’approccio, che userà James Gunn per rilanciare Superman. Ho cercato di dare una lettura personale agli indizi sparpagliati nel corso degli ultimi sei o sette mesi. Eccovela.
C'era una cosa che mi era saltata agli occhi quando James Gunn, qualche giorno fa, ha svelato i volti degli attori che incarneranno Clark e Lois nel suo prossimo "Superman: Legacy". Sono volti old fashioned.
David Corenswet e Rachel Brosnahan sembrano due giovani usciti da una macchina del tempo.
Ho subito avuto una sensazione, ma l'ho lasciata lì, nel retro del cervello.
Poi, cinque giorni fa, James Gunn posta quest'immagine sul nuovo social bluesky.
Di per sé questa immagine potrebbe voler dire semplicemente che Gunn vuole tornare allo spirito originale del personaggio. Eppure a me, unita alle foto di Corenswet e della Brosnahan, ha fatto nascere un'ipotesi, forse folle o forse no.
E se il Superman di James Gunn fosse non solo ispirato nello spirito e nell’iconografia al Superman classico dei primissimi comics, dei movie serials e dei cartoni di Max Fleischer ma fosse proprio un period, un film in costume?
Sarebbe il modo di smarcarsi da quanto fatto finora sul personaggio da Donner in poi, recuperando un sense of wonder atemporale. E permetterebbe di creare un universo cinematografico originale con una Golden Age, una Silver Age, una Bronze Age e una Modern Age, insomma una Storia. Epoche diverse, eroi diversi e un’infinita possibilità in termini di ricchezza di racconto. Insomma, un universo cinematografico lontano dal contemporaneo Marvel Cinematic Universe e più vicino al "classic feel" che la DC Comics ha sempre avuto.
Insomma, il Superman di Gunn potrebbe somigliare a questo?
Che dite, sto prendendo una cantonata? Probabilissimo.
Ma c’è un indizio in più.
Se siete degli amanti dei comics come me e avrete sicuramente ascoltato o letto le dichiarazioni di Gunn del gennaio scorso, in cui dettagliava l’operazione di (ri)lancio dei DC Studios. Se non le avete ascoltate o lette e vi andasse di farlo, eccovi il video ufficiale.
Bene, se non lo sapevate già ora lo sapete, la prima "fase" dei prossimi film DC è stata battezzata da James Gunn "Gods and Monsters".
Ai più cinefili questo titolo non può non aver riportato alla mente il film di Bill Condon.
Vi ricordate di cosa parla?
Di James Whale, regista dei classici Frankenstein e L'Uomo Invisibile usciti negli anni '30, stesso decennio in cui Superman vide la luce su Action Comics...
E allora, mettendo assieme i tasselli, mi sono chiesto: e se la Metropolis di Gunn fosse proprio la Metropolis di Fritz Lang, altro film cardine di quel periodo?
Insomma, forse sto prendendo una cantonata, o forse no... ma se fosse questo il “take” di James Gunn a un’icona pop affascinante ma complessa come quella di Superman?
Ma cosa si intende per “take”?
Chi tra voi fa il mio mestiere probabilmente lo sa già. Per tutti gli altri quando si parla di “take” si intende il modo in cui approcciare una storia e/o un personaggio. Quando un produttore chiede a uno sceneggiatore di proporre un “take”, di solito è su un materiale preesistente che necessita un’operazione di adattamento.
Per fare un esempio che mi riguarda direttamente, pur se non usarono mai la parola “take”, quando chiesero a me e ai co-autori de “Il Mostro di Firenze” quale fosse il nostro approccio alla storia, la risposta fu “raccontarlo da due punti di vista, quello degli inquirenti e di Renzo Rontini, il padre di una delle vittime”.
Non basta una frase per avere un take ovviamente ma la sintesi estrema permette di avere e di dare una visione chiara e precisa del prodotto, del suo tono, del tema e persino della posta in gioco emotiva che sono poi le cose basilari che interessano al committente per capire se la vostra idea lo convince o meno.
Immaginate di avere tra le mani un’icona pop come Superman che è già stata oggetto di almeno una decina di versioni diverse tra serial, serie, film, cartoon… qual è il vostro approccio? In che modo la vostra visione è diversa e nuova da tutte le altre che l’hanno preceduta?
Ma può accadere che l’oggetto del vostro take non sia un personaggio fittizio, un romanzo o una storia vera ma un’icona vivente, in carne e ossa. È quello che è successo a me e al mio collega Jean Ludwigg poco più di un anno fa e ve ne voglio parlare brevemente…
Il take che hai dentro.
Prendo due piccioni con una fava. Parlandovi de “La Voce Che Hai Dentro” vi parlo anche di cosa serba per me il futuro prossimo venturo. La settimana scorsa Mediaset ha annunciato i palinsesti dell’autunno 2023. La notizia è stata riportata da tutti i siti d’informazione che hanno dato risalto in particolare a due serie tv, come sottolineato anche dal titolo di un articolo de Il Fatto Quotidiano. Una di queste l’ho co-creata io assieme al mio amico e collega Jean Ludwigg per poi essere coadiuvati nella scrittura dalle bravissime Iole Masucci e Laura Sabatino. Non è l’unica serie a cui ho prestato il mio mestiere negli scorsi mesi, dopo tre anni di assenza dagli schermi torno a fare capolino con due prodotti molto diversi tra loro. Dell’altro avrò modo di parlare in futuro, ora mi concentrerò sul primo: “La Voce Che Hai Dentro”.
Questa serie non nasce direttamente da me e Jean. Non è un concept “on spec” che è stato poi venduto, è un lavoro “su commissione”. Siamo stati approcciati da Lucky Red, produttore di cinema e tv, che ci ha coinvolti in questa impresa: Mediaset voleva realizzare una serie tv con protagonista Massimo Ranieri. C’erano già stati altri approcci che non avevano funzionato e ne serviva uno nuovo. Esistevano degli input di massima: un’idea in nuce di Ranieri e un’esigenza di genere e prodotto da parte di Mediaset. Ma andava trovata una forma, un protagonista e una storia che le incarnassero.
Come si approccia un “take” del genere?
Non esistono regole, un take non è frutto di una scienza esatta, forse è la parte più intuitiva e ideativa del lavoro di adattamento, ma vi posso dire come abbiamo lavorato io e Jean. Siamo partiti dall’icona, dalle sue caratteristiche e dal suo talento. Massimo Ranieri è sinonimo di musica e quindi la musica doveva essere non un semplice elemento ma, al tempo stesso, posta in gioco del plot e collante emotivo. Ma per avere un “take” che fosse inattaccabile, avevamo bisogno di un ingresso in scena che fosse al contempo imprevedibile e memorabile, un ingresso in scena degno dell’icona stessa. Ed è così che la nostra visione ha preso forma. La storia di un produttore discografico, accusato di un delitto per il quale si è sempre professato innocente, che esce di prigione e dovrà salvare la musica e, con la musica, salvare la sua famiglia anche se questo potrebbe voler dire perderli per sempre. In pochissime parole, siamo riusciti a sintetizzare la posta in gioco concreta (il “want” del personaggio, obiettivo esterno) e quella emotiva (il suo “need” o bisogno interno) usando la caratteristica fondante dell’icona stessa. Al di là del risultato finale della serie che vi lascio giudicare, sono felice che io e Jean abbiamo avuto una visione così precisa.
Ne riparleremo al momento della messa in onda, se volete. Fatemi sapere nei commenti se è un argomento che vi interessa.
Ma ora, ATTENZIONE! Stiamo per entrare nella SPOILER ZONE di questo post!
Indiana Jones, ovvero come concludere l’arco di un’icona.
Ho già speso qualche parola su “Indiana Jones e il Quadrante del Destino” ma un post di Cole Haddon mi ha fatto approfondire la riflessione. Se siete sceneggiatori e non foste iscritti alla newsletter di Cole, vi consiglio vivamente di farlo. Tra interviste, consigli professionali e approfondimenti è una delle letture più interessanti qui su Substack. O quantomeno lo è per chi fa il mio mestiere.
Il post di Cole su Indy 5 punta il dito contro le reazioni violente di alcuni fan all’ultima avventura dell’archeologo avventuriero più famoso del mondo. Cole lo prende come spunto per parlare anche di altro, ovvero della pratica ormai diffusa dei commenti “tossici” di un certo tipo di spettatori. C’è da dire che, per fortuna, nel caso di Indy, una buona parte di pubblico ha apprezzato il film. Ne è prova il fatto che su Rotten Tomatoes il film ha un bel 88% di gradimento del pubblico, contro un 69% di gradimento della critica. Insomma, lo spettatore medio non ha affatto detestato il film ma chi non lo ha fatto, spesso lo ha letteralmente “odiato”.
Questo mi ha fatto riflettere. Ogni volta che un film suscita reazioni così forti si trasforma in un interessante oggetto di studio. E allora perché c’è chi ha “odiato” questa quinta e ultima avventura di Indiana Jones?
Facciamo un passo indietro, “Indiana Jones e il Quadrante del Destino” mi è piaciuto ma non è affatto un film perfetto. Ci sono buchi, questioni in sospeso e alcune sequenze più “alimentari” che necessarie. Quindi è assolutamente comprensibile che qualche spettatore esca dalla sala con l’amaro in bocca. Ma le reazioni più forti, forse, sono motivate da qualcosa che va al di là dei difetti del film.
Dietro questo film c’è un “take” ben preciso che alla fine toccando il personaggio di Indiana Jones tocca il rapporto di tutti noi con le icone del nostro Passato.
Fateci caso, non c’è una sola persona che non abbia apprezzato la sequenza introduttiva di questo quinto film. Non ci vuole molto a capire perché. Lì, con un ottimo effetto di de-aging, c’è l’Indy che abbiamo conosciuto e amato. Il film inizia restando fedelissimo all’iconografia che tutti abbiamo impressa a fuoco nella memoria…
La sequenza termina in modo diverso dal solito, sembra di assistere alla fine di un film più che alla fine di un teaser. Non è casuale, in quella sequenza termina un’Epoca e termina anche il Mito per come lo conosciamo, perché quando saltiamo alla fine degli anni ‘60, gli autori dello script (i fratelli Butterworth e Mangold) distruggono programmaticamente l’iconografia di Indiana Jones.
Indy è un uomo stanco, disilluso che non riesce più a vivere il presente. Non è più un affascinante tombeur de femme, è triste, imbronciato e le sue lezioni non interessano più nessuno. Il mondo è tutto proiettato verso lo spazio, ovvero il futuro. Il villain, peraltro, è un astrofisico ex nazista, ora prezioso alleato del governo americano che ha aiutato a sbarcare sulla Luna. La vita di Indiana Jones ha sempre gravitato attorno al passato ma ora è diventato lui stesso il passato. È diventato un uomo superato. Il furto del meccanismo di Antikytera che custodisce da decenni lo spinge di nuovo all’avventura. Ma questa non è un’avventura come le altre, in questo Indy i buoni possono morire e i cattivi non sono più facilmente riconoscibili. Un nazista alleato, dei servizi segreti deviati e una giovane donna che non ha bisogno di essere salvata… insomma, il mondo attorno a Indy è cambiato. E anche lui non è più lo stesso uomo di prima. Indy lo sa, ha perso tutto quello per cui ha sempre vissuto e infatti sta per mollare. Non è proprio l’immagine che abbiamo in testa di Indy ma il film sta proprio qui.
Nel terzo atto del film, Mangold e i Butterworth prendono una direzione coraggiosa ma coerente e ci conducono verso un climax imprevedibile, spiazzando tutti e deludendo ancora di più le aspettative dei fan. Perché essendo il McGuffin di questa storia un oggetto che permette di viaggiare nel tempo, molti si aspettavano che facessero capolino dei ritorni eccellenti dal passato. Un fan service, in cui il film avrebbe passato in rassegna tutti i migliori momenti della saga trasformando questo film nel “Flashpoint” di Indiana Jones.
Ammetto che me lo aspettavo anche io e, come me, se lo aspettava anche il mio beniamino Kevin Smith che, assieme a Marc Bernardin, nell’ultimo episodio del suo podcast “Fatman Beyond” dettaglia la sua cocente delusione, spiegando quello che avrebbe voluto vedere in questo film. Se masticate l’inglese e aveste voglia, eccovi il video su YouTube oppure la sola traccia audio su Spotify, ve li ho messi al punto in cui Smith e Bernardin iniziano a parlare del film.
Ecco, per una volta non sono d’accordo con Kevin, anzi ringrazio i fratelli Butterworth e James Mangold per non avermi dato quello che mi aspettavo ma quello che di cui il personaggio e la storia avevano bisogno. Perché, per come la vedo io, il senso del film, il senso del take di Mangold su Indy, sta tutto in quell’ultimo quarto d’ora.
Indiana Jones sbarca in quel passato che ha studiato e a cui ha dato la caccia per tutta la sua vita. Finalmente può diventare parte della Storia. Insomma, Indiana Jones è come un die hard fan a cui stanno fornendo il fan service assoluto: vivere nel mondo che ha sempre immaginato. Ma è qui che il film prende a schiaffi gli aficionados. È come se Mangold puntasse il dito contro chi, come la generazione X, vive un rapporto nostalgico con il passato e le sue icone. Icone che hanno ormai quarant’anni e sono fuori dal tempo. “Il Quadrante del Destino” è un film che parla a me e a quelli della mia generazione e ci fa realizzare che il Tempo passa inesorabile, per tutti, non solo per Indy ma anche per i suoi fan e che non si può vivere nel Passato perché la vita è solo al Presente. A che serve il fan service se non a nutrire un mito ormai obsoleto?
Ditemi quello che vi pare ma per me è proprio questo messaggio che entrandoti, volente o nolente, sotto la pelle o ti fa innamorare di questo film o te lo fa detestare, fino ad odiarlo.
Questo quinto Indy prende un personaggio immutabile come Indiana Jones, un angelo viaggiatore che salta invariabile di avventura in avventura, e gli dona un arco di cambiamento. Eccolo il “take” di “Indiana Jones e il Quadrante del Destino”. E, scusatemi, non è poco…
Bene. Nonostante la mia prolissità siamo giunti alla fine, non solo di Indiana Jones, ma anche di questo post. E voi cosa ne pensate? Se voleste commentare o condividere siete i benvenuti. Ci si legge nel futuro…
Scena post credits…
Ormai è diventata una cifra della mia newsletter. Una piccola coda. Questa volta vi mostro un po’ di prodotti derivati di Indiana Jones che non sono arrivati in Italia.
Una serie di romanzi prequel, situati tra la fine della serie “The Adventures of Young Indiana Jones” e i film. In tutto sono tredici, dodici editi da Bantam Books e uno da Del Rey Books ma io sono riuscito a mettere le mani solo su queste edizioni cartacee francesi dei romanzi di Rob McGregor (autore anche della novelization de “L’Ultima Crociata”) e su quattro e-books di Max McCoy in lingua originale, apparentemente i migliori del mazzo.
Apparentemente esistono anche otto libri spin-off usciti per il solo mercato tedesco, peccato che non mastichi l’idioma…
Qui sotto invece l’introvabile Omnibus Vol.1 che raccoglie alcune delle miniserie uscite per Dark Horse Comics. Questo è quotato intorno ai 100 €, laddove per il secondo bisogna sborsare anche più di 300 €. Inutile provare a cercarli sul mercato del digitale, i fumetti in questione non sono mai stati rieditati in questo formato. Anzi, sarebbe interessante capire il motivo…
Last but not least, una vera sorpresa. Delle BD uscite per il solo mercato francese. Per un amante dei fumetti come me questi due volumi (ne esiste anche un terzo, difficilmente reperibile) hanno un valore particolare.
Prima cosa, sono scritti da Claude Moliterni, co-fondatore del Festival d'Angoulême e, prim'ancora, del Salone Internazionale dei Comics. E seconda cosa sono disegnati da Giancarlo Alessandrini, co-creatore grafico di un altro archeologo avventuriero… Martin Mystère!
Insomma, l’autore di un personaggio nato dal successo di Indy, si ritrova a disegnare la fonte ispiratrice stessa! E anche con risultati eccellenti (migliori sia delle incarnazioni a fumetti Marvel o Dark Horse, lo ammetto). Ma l’altra chicca è tutta contenuta nei meandri degli aneddoti sulla nascita del personaggio di Indiana Jones. Sono state molti le fonti ispiratrici di George Lucas e di Steven Spielberg. Spielberg in particolare adorava James Bond e… Tintin! E chi conosce bene entrambi i personaggi, sa quanto hanno influenzato il mood e la struttura delle avventure di Indiana Jones. Ecco, grazie a questi due albi, il personaggio di Indiana Jones fa il giro e torna alle origini, diventando la stessa cosa che lo ha ispirato… una BD con lo stesso identico sapore di Tintin. Se ve ne parlo, però, è perché anche questo di Moliterni/Alessandrini è un “take” originale all’icona pop Indiana Jones. Anzi, vi dirò di più, forse la più giusta per una versione a fumetti di Indy.
È tempo di saluti…